Si intitolerà Porn Studies e si propone di parlare di pornografia un po' come Ghezzi parla di cinema.
A quanto pare, l'intento è una legittimazione socioculturale del porno, alimentata dalle considerazioni di rito sul rapporto fra media e pornografia e tutte le declinazioni che ne seguono: evoluzione del concetto di pudore, mutamenti sociali e contesti storici. Tutti aspetti già ampiamente affrontati da sociologi, esteti, massmediologi ed altre persone con molto tempo a disposizione (si leggano "Il Libro di Quell'Antropologo di Cambridge con una Tizia Vestita di Latex in Copertina" e "Quel Saggio Che Ho Fatto Finta di Leggere" di Un Tale di Cui Non Ricordo il Nome).
D'accordo. L'operazione mi incuriosisce.
Ma a guardarla in superficie, ad immaginarmi il magazine, la prima impressione che mi restituisce è l'ilarità che il sesso scatena. O meglio: l'ilarità scatenata dal parlare di sesso.
Sappiamo che il sesso condiziona le nostre vite come pochi altri fattori. Siamo esposti ad impulsi sessuali continui (e no, non è un frutto dei nostri tempi, a meno che per "nostri tempi" non si intenda il periodo che va da quando gli esseri umani hanno sviluppato un apparato riproduttivo ad oggi). Ne parliamo, ne scriviamo, ragazzine di ogni parte del mondo pubblicano in rete foto delle loro tette. Per una scopata diventiamo romantici, diventiamo violenti, diventiamo qualsiasi cosa.
Ma parlare di sesso in pubblico - specie se in determinati contesti sociali come autobus, colloqui di lavoro e scuole materne - continua ad imbarazzarci. Una battuta a sfondo sessuale ci fa ridere o arrossire. Ministeri ed uffici comunali sono un tam-tam di inossidabili barzellette zozze che restano ineguagliate nella capacità di scatenare risate brutali. Mio padre stesso è un tam-tam di inossidabili barzellette zozze (e brutali).
Non so perché. O meglio, lo so ma mi sono stufato di scrivere. A farla breve si tratta della difficoltà ad esporsi, ad ammettere che "sì, so di cosa stiamo parlando" perché "sì, anche io mi sono fatto urinare addosso da un ragioniere di Macerata". O qualcosa del genere.
Deve avere, comunque, qualcosa a che fare con il lavoro di Pavel Fuksa, un graphic designer che, in collaborazione con Karolina Galacz, appresa la notizia della pubblicazione di Porn Studies, ha concepito una vasta bibliografia di studi pornografici , cioè le fake cover che vedete in questo post.
Il risultato mi piace. C'è minimalismo geometrico, c'è gusto retrò, c'è arroganza accademica e ci sono titoli buffi.